Università, governance, autoformazione e scenari del conflitto

L'immagine “http://www.uniriot.org/images/stories/uniriotto2.jpg” non può essere visualizzata poiché contiene degli errori.linkiamo un appuntamento interesante, due giorni di assemblea nazionale della rete UniRiot!
 
Il 24 ed il 25 maggio si terrà a Torino la riunione nazionale delle realtà universitarie che compongono la Rete per l’Autoformazione; tre sono i temi su cui proponiamo di articolare la discussione, peraltro già presenti nella riflessione e nell’iniziativa sia delle singole realtà, sia della rete: governance, autoformazione e rapporto con i movimenti.  

Quando parliamo di governance ci riferiamo sia alla trasformazione degli apparati e delle modalità di governo e di amministrazione dell’università, sia ai nodi più generali a cui rinvia il termine, flessibilizzazione delle strutture di potere, diversi obiettivi che si pongono, capacità di esse di entrare “in presa diretta” con il sociale, ipotesi di nuove forme di negoziazione e di controllo ed altro ancora.

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Sull’autoformazione si tratta di valutare lo stato delle iniziative in atto, la loro significatività come esperimenti, misurarne l’incidenza sul sistema esistente della formazione, sia come proposta alternativa (dal punto di vista della qualità del processo di produzione e trasmissione dei saperi), sia come strumenti per forzare e mettere in discussione il normale funzionamento della didattica.

 

Diversi sono i nodi, poi, impliciti nel dibattito sui movimenti, qui ci riferiamo in particolare alle forme di lotta che si sono date nei territori, sulla questione dei “beni comuni” (utilizziamo queste definizioni per comodità, ovviamente, non perché siano di per sé soddisfacenti), Val di Susa e Vicenza in primo luogo; vi sono questioni più specifiche e immediate: il modo corretto di rapportarsi a quelle esperienze da parte degli organismi universitari, gli insegnamenti da ricavarne sul rapporto tra istituzioni, sistema politico e dinamiche sociali e di conflitto, le opportunità che offrono per ripensare i termini della “battaglia sui saperi”, c’è, poi, il tema più generale delle tendenze che esprimono, del significato più generale che può essere loro attribuito.

 

Ovviamente, s’intende lavorare da parte nostra sull’ipotesi che tra queste tre grandi tematiche vi siano intrecci e rapporti, da esplicitare e da sviluppare per dare più forza alla definizione di scenari di conflitto, dentro e fuori gli atenei.

 

Governance

 

Data la pluralità di significati che il termine ha assunto e la complessità dei problemi politici a cui rinvia, è opportuno iniziare a parlare di governance con riferimento a quello che implica nell’ambito specifico dentro cui ci muoviamo, ovvero le ipotesi e le trasformazioni effettive in atto che riguardano l’organizzazione ed il governo del sistema universitario a livello nazionale e le strutture di potere e di funzionamento dei singoli atenei. Già l’introduzione del principio dell’autonomia delle singoli sedi universitarie, nel 1989, aveva rappresentato un punto di svolta decisivo, ma da allora il processo di “riforma infinita” non si è più fermato; è, peraltro, universalmente noto che il ministro Mussi aveva, la scorsa estate, indicato il 2007 come l’anno in cui sarebbe stato presentato dal governo un progetto complessivo di riforma della governance universitaria.

 

Se si prendono in considerazione gli elementi emersi nel dibattito governativo, politico e dei luoghi di direzione della comunità accademica e le trasformazioni già in atto, emerge con estrema evidenza l’adozione di linguaggi, metodologie e logiche che provengono dall’ambito manageriale (pianificazione strategica, misurazione delle performance, controllo di qualità), il modello di ateneo che si ha in mente è quello di una struttura che si rapporta sempre più con l’esterno, sia che si tratti del territorio in cui opera, sia che ci si riferisca ai mercati internazionali della ricerca e della formazione.

 

Tra i compiti della singola sede universitaria, acquisisce sempre più peso quello di contribuire allo sviluppo economico del contesto in cui è inserita; la competizione per attrarre investimenti, personale e studenti caratterizza le politiche e lo stile di gestione, i risultati ottenuti in essa determinano e devono sempre più determinare nuove gerarchie, non solo nazionali, tra le diverse sedi. Sul piano più specifico della discussione sui sistemi e sui metodi di amministrazione e gestione si diffondono, nella letteratura specialistica, termini come quello di azienda di “servizi della conoscenza”.

 

Ma dire azienda significa parlare di comando e questo si riorganizza su più piani: reperimento, canalizzazione delle risorse, definizione delle regole vincolanti del sistema, selezione delle domande e delle esigenze che vengono dal sociale, nuove articolazioni, divisioni e reintegrazioni delle attività che si svolgono all’interno; ma si tratta di un comando con caratteristiche nuove, più continuo, più dinamico, attento alle tensioni che si possono determinare, quando si vogliono imporre strategie complessive originali, che cerca, almeno formalmente, il consenso e la partecipazione, sia pure in forma subordinata e subalterna. Si impone l’esigenza di aggiornare la critica delle forme di rappresentanza e partecipazione istituzionali, presenti dentro l’università, tenendo conto di queste dinamiche che abbiamo sommariamente ricostruito.

 

 

Un tema ci pare particolarmente importante in questo quadro e può costituire un taglio interpretativo dei problemi utile, che va orientato però all’intervento e non solo all’analisi: ci riferiamo al rapporto università-metropoli, questione che, peraltro, più volte è comparsa nel dibattito della rete per l’autoformazione. Qui le trasformazioni istituzionali e amministrative del sistema universitario trovano con più evidenza, come già era intuibile con quello che si è accennato prima, un rapporto con i mutamenti all’interno della produzione sociale, all’emergere di una nuova struttura della valorizzazione e dell’accumulazione, al costituirsi di forme di sfruttamento adeguate; si tratta di assumere la metropoli come nuovo ambiente produttivo, che ha alla sua base i nessi tra lavoro, conoscenze e “vita”. Contemporaneamente è necessario sottolineare come tali nessi non si diano in maniera lineare, senza conflitto. 

 

Pensando all’ambito metropolitano non possiamo non tenere conto delle produzioni di sapere e conoscenze che avvengono quotidianamente a livello giovanile, nel vissuto dei gruppi che elaborano linguaggi, segni, attitudini spesso anche in rottura con le forze che sono preposte al controllo o alla repressione. In un simile contesto, ci pare, dobbiamo concentrare la nostra attenzione su tutto ciò che può rompere la catena del comando, può cioè entrare in contraddizione aperta con strutture e personale la cui unica finalità è di stabilire o ristabilire compatibilità, cancellando lo scarto, smussando gli angoli vivi del possibile conflitto.

 

 

La nuova “governance” universitaria si rapporta in questo contesto, anche, con un ruolo diverso dell’amministrazione pubblica, nelle sue diverse articolazioni, oltre, cioè, la classica erogazione di servizi e la regolazione urbanistica. Essa assume, ad esempio, il compito di mettere in comunicazione ambiti diversi, imprese, mercati specifici del lavoro, istituzioni. L’osservazione di quest’ambito, permette quindi di misurarsi con altri aspetti, più generali, delle questioni a cui allude la tematica della governance. Pensiamo che qui sia inevitabile ricorrere ancora allo strumento dell’inchiesta, data la complessità delle questioni a cui, troppo brevemente, si è fatto riferimento, al carattere ancora aperto dei processi in corso.

 

Nonché all’emergere, appena l’analisi si fa più ravvicinata, di contraddizioni, di blocchi inaspettati nell’iniziativa istituzionale; è utile ripeterlo ancora una volta, non ci guida in questo un intento solo conoscitivo, bensì l’urgenza di ridefinire i termini dell’iniziativa antagonistica, di sperimentare le modalità attraverso cui le soggettività possano rendersi consapevoli della potenza sociale dell’attività che mettono in opera, delle forme di espropriazione che subiscono, delle potenzialità, della propria cooperazione, che vengono negate. Si tratta, insomma, di vedere il terreno della governance come nodo del conflitto sulle caratteristiche ed il futuro dello sviluppo capitalistico.

 

 

PROGRAMMA DELLA DUE GIORNI

 

  • Giovedì 24


-ore 14.oo-16.oo: tavola rotonda radiofonica dal titolo "Autonomia e conflitti.Costruzione di alternative all'interno dell'università riformata"

-ore 16.30: apertura dei lavori e a seguire dibattito su "Governance e università. Mutamenti delle forme di gestione del potere nell'università-metropoli"

-ore 20.30: apericena e proiezioni video nel giardino del C.s.o.a. Askatasuna

  • Venerdì 25


-ore 10.30: dibattito su "Autoformazione. Pratiche del conflitto dentro e contro la governance"

-ore 15.30: dibattito su "Autonomia dei movimenti e saperi di parte. Lo spazio europeo…"
e conclusione dei lavori

-dalle 22.30: Uniriot party – serata musical-info- all'università liberata



L’UNIVERSITA’ SPEZZATA

AUTOFORMAZIONE, METROPOLI, MOVIMENTI

 

Da alcuni anni diverse realtà universitarie hanno investito politicamente sul terreno dell’autoformazione. Questa scelta si è data in modi diversi e non omogenei nei diversi tempi e luoghi, ma ha trovato una sintesi esplicita e unitaria nel manifesto per l’autoriforma dell’Università che fu il risultato delle mobilitazioni contro la riforma Moratti della ricerca nell’Autunno 2005.

 

Una stagione importante, quella circoscritta dall’anno accademico 2005-2006: mentre in Val di Susa migliaia di persone costruivano un’opposizione autonoma e di massa al progetto dell’Alta Velocità, gli studenti universitari occupavano un po’ ovunque le facoltà contro la riforma dello statuto giuridico della docenza universitaria. In entrambi i casi il governo Berlusconi affrontava movimenti di opposizione sul terreno della scienza, del suo uso, della sua organizzazione, distribuzione e applicazione tecnica.

 

Negli stessi mesi un evento luttuoso a Parigi infiammava, letteralmente, le periferie di tutta la Francia, per diverse settimane. Vittime, feriti, migliaia di arresti e danni urbani per cifre da capogiro mostravano a tutto il mondo la gestualità complessa di un soggetto difficile da descrivere e afferrare. E’ stata la rivolta per eccellenza fraintesa e rivendicata, evocata e al contempo rimossa tanto dai poteri costituiti quanto dai movimenti. Di volta in volta interpretate come episodio impolitico, spontaneismo inane, insorgenza identitaria, protagonismo di un sottoproletariato o di un precariato, ancora quelle settimane attendono una decifrazione all’altezza del messaggio che hanno voluto, in qualche modo tutto da ricostruire, inviare all’Europa.

 

Il continente è parso terrorizzato dagli eventi di quei giorni, con i governi che da Londra a Roma, da Atene a Berlino si affrettarono a scongiurare pubblicamente la minaccia nei modi più disparati, ma sempre con una retorica inquieta. Il problema, si disse, riguardava gli emarginati, i margini esterni del ciclo produttivo e della metropoli, forse dell’Europa stessa; il male risiedeva nelle storture periferiche, non nella normalità del centro, nel battito regolare del cuore del sistema. Ma con un veloce crescendo, la quantità di occupazioni di licei e facoltà in tutta la Francia, accompagnate da manifestazioni e blocchi metropolitani organizzati, si sono incaricati di dislocare ancora altrove lo stato d’assedio. Questa onnipervasività del conflitto sociale impone interrogativi precisi: dove, in Europa, il capitalismo è al sicuro? Donde invece provengono e proverranno le sue più motivate inquietudini?

 

Una domanda che obbliga le realtà antagoniste, ancora una volta, a produrre una propria conoscenza del presente e una propria scienza della contraddizione, tentando di sottrarre valore e futuro ai saperi del controllo e dell’accumulazione, ossia agli spazi della formazione semiotica e testuale del capitale.

 

L’autoformazione non è contro-formazione o controcultura. Le pratiche di autoformazione si inseriscono nel quadro di un capitalismo organizzato da tempo sulla base della valorizzazione di contenuti testuali, cognitivi, timici. Le competenze, le sensibilità, le emozioni, ma anche la capacità inventiva e l’immaginazione vengono tradotte in produzione di valore. Nei luoghi dello sviluppo più avanzato del capitalismo globale sempre più la produzione si orienta su queste regioni della realtà, su ciò che è segnico, sul codice, sul linguaggio. Questo è il carattere testuale di una parte importante della produzione, che assume in varie zone del pianeta una posizione egemonica nel ciclo produttivo, decostruendo l’opposizione rigida o statica tra concetti come capitale costante e capitale variabile, produzione e riproduzione, lavoro e non lavoro. Se non cessa certo di esistere una produzione materiale primaria, la produzione materiale segnica o testuale che fin dalle origini abita il ciclo produttivo capitalistico – intendendo ovviamente come testo tutto ciò che è traccia, iterazione e grafema, fino ai sogni e alla danza – tende oggi a conquistare il centro del sistema.

 

 

L’autoformazione aggredisce quindi il capitalismo, si direbbe, al cuore. Sottrae spazi e tempi al ciclo estrattivo del plusvalore testuale o cognitivo e produce autovalorizzazione dei soggetti, riappropriazione sociale di classe.

Come ogni categoria analitica radicata nel tempo e nel vivo della trasformazione della realtà sociale, tuttavia, anche la categoria di autoformazione merita di essere sottoposta a un’interrogazione critica piuttosto serrata.

 

 

Guardiamo ai percorsi di autoformazione messi in piedi in questi anni. A Torino, per esempio, si è sperimentato il ciclo di conferenze interdisciplinare contro la guerra, il susseguirsi di dibattiti sull’antifascismo, la discussione circa le metamorfosi dei soggetti sociali e delle organizzazioni produttive tra fordismo e post-fordismo, fino ai gruppi studenteschi di confronto sui movimenti, le loro caratteristiche, i loro limiti, le loro potenzialità. Il riconoscimento di crediti è stato talvolta presente in questi percorsi e talaltra no, ma quello che più colpisce in questo itinerario – e, ci sembra, in tutti quelli sperimentati in questi anni in Italia – è che questa autoformazione ha visto protagonisti studentesse e studenti universitari nei loro luoghi di studio, secondo uno scenario piuttosto classico.

 

Questo non è scontato, perché la produzione testuale non investe e non riguarda mai, e da molto tempo in modo parossistico, soltanto l’università, ma l’intero ciclo produttivo, l’intera metropoli. Come la produzione agricola ha da tempo cessato di essere organizzata in modo differente rispetto a quella industriale, rendendo obsoleta – dal punto di vista economico – la distinzione città/campagna, così l’iper-settore industriale ha da tempo avviato un processo di integrazione complessa con il cosiddetto “terziario”, trasformando la metropoli stessa e la vita al suo interno.

 

La formazione di capacità e competenze è centrale, il capitale costante viene distribuito e frammentato in una miriade di atomi di forza lavoro materiale/cognitiva sempre più uniforme, sempre più livellata. Le agenzie deputate alla formazione svolgono un ruolo fondamentale, divengono luoghi nevralgici della costruzione di forza-lavoro e perciò di valore. L’università perde le sue caratteristiche più retrive e auratiche, non è più credibile – se mai lo è stato – il suo posto nel cielo della pura speculazione o contemplazione. Il suo ruolo di formazione (ma anche immediatamente di messa all’opera) di forza-lavoro intellettuale standardizzata la trasforma e sembra farla collassare sulla metropoli, quasi identificarla con essa.

Sarebbe possibile allora chiedersi che senso abbia coltivare una presenza politica specificamente qui, tra queste mura, che qualcuno ha chiamato “rovine” dell’università. Un’autoformazione all’università, un’autoformazione degli studenti per gli studenti, non è anacronistica?

 

 

Occorre formulare con rigore il nodo del rapporto tra università e metropoli. In realtà noi assistiamo a un processo che è al contempo uno e molteplice. D’altra parte converrebbe intendere il termine “università”, nella sua relazione con quello di “metropoli”, al plurale. Cioè il problema è quello del rapporto tra le università e la metropoli.

Noi sappiamo che in ogni grande città da tempo agenti diversi dall’università fanno tanto formazione quanto ricerca: agenzie di formazione attraverso stages, scuole di formazione, rami dell’impresa privata e di stato, centri di repressione, rieducazione e recupero. Questa molteplicità di enti intrattiene un rapporto sfaccettato con l’università classica: ne è appendice, ne è esterna, la frequenta, la imita, entra in contrapposizione o in concorrenza con essa. In generale il binomio formazione/ricerca è presente in questi laboratori metropolitani, come il tentativo di darsi pregio e aura istituzionale e para-universitaria. Nel contempo l’università classica si china sulla metropoli produttiva e perde progressivamente i tratti che ne farebbero qualcosa di completamente diverso da queste ulteriori agenzie formative.

 

Nell’osservare questo movimento o metamorfosi complessa, notiamo insomma una tendenza di più soggetti a uniformarsi, probabilmente preludendo alla formazione, in ultima analisi, di qualcosa di inedito. Differenti agenzie di formazione, con caratteristiche e storie – in parte anche ruoli – che restano differenti (l’università non è l’istituto professionale, il centro di ricerca privato non è il centro di ricreazione giovanile di quartiere) mostrano affinità sempre più pesanti con l’avanzare del processo di sviluppo del capitalismo, senza tuttavia perdere le loro specificità.

Sulla base di questo fatto notiamo allora che non si tratterebbe tanto di emigrare dall’università, ma di decentrare il nostro concetto di università e, con esso, quello di autoformazione. Le università, al plurale, della formazione di soggetti funzionali al sistema, della creazione di plusvalore timico o testuale, sono tantissime; noi ne abitiamo, di solito, una in particolare – quella tradizionale e classica. Allora aprirsi alla metropoli significa anzitutto concepirsi come un ramo della universitas dei docenti e dei discenti, secondo l’origine medievale del nome, una universitas che tende a uniformarsi e a coincidere con il tessuto produttivo dell’urbe, ma resta nondimeno frastagliata al suo interno e distinta da quello.

 

L’autoformazione dovrebbe quindi nei prossimi anni mettersi in viaggio, percorrere un tour universitario metropolitano nelle varie specie di università moderne che compongono l’universitas, rompere il rischio di Università-centrismo con la “U” maiuscola, che rischia paradossalmente di proiettare su tutta la metropoli un modello di formazione della forza lavoro cognitiva che è invece, come tutti gli altri, eccentrico, rappresentativo di una storia tra le altre del capitalismo contemporaneo, di una tra le altre delle storie universitarie metropolitane.

I rivoltosi francesi dell’autunno 2005 avevano un sogno che si è realizzato – in modo problematico e contraddittorio – nella primavera 2006: arrivare in centro. Gli spazi aperti dal movimento della forza lavoro intellettuale in formazione hanno favorito l’arrivo dei soggetti che si sono formati spesso all’università del carcere, secondo la bella espressione dei fratelli Cervi, o all’università del crimine, che Totò e Monicelli vollero abilmente edulcorare. Il risultato è stato spesso drammatico: incomunicabilità, scontro, tensione.

 

Il sogno dei soggetti in autoformazione oggi deve essere, al contrario, quello di arrivare in periferia. Se la conformazione metropolitana varia di città in città, di regione in regione del continente, e non è perciò possibile considerare il nodo “periferia/decentramento” in maniera rigida o astratta, resta la necessità di uscire da questa università per attraversarle tutte. Tutto questo non nasconde la cattiva idealizzazione di un soggetto sociale piuttosto che un altro, ma l’intuizione che la tendenza allo spezzarsi dell’università relativizza sempre più il nostro punto di vista e ci obbliga a interrogare anche soggetti per molti versi differenti da quelli che abbiamo intercettato durante le mobilitazione studentesche e precarie. I comportamenti, anche trasgressivi o orientati a un rifiuto indistinto, possono assumere forme regressive o poco critiche, ma è proprio per questo che la soggettività politica deve questionare il suo rapporto con questi pezzi di metropoli, queste nuove università metropolitane, lasciando a casa qualsiasi tentazione intellettualistica, moralistica, o peggio pedagogica.

 

Si tratta di aggredire il nodo dell’inclusione differenziale, anzitutto sul terreno della riproduzione. Praticare un assalto alle differenziazioni quantitative del reddito e delle possibilità di consumo, per propiziare un’inclusione scandalosamente proiettata in avanti – la messa in comune della ricchezza sociale, materiale primaria o cognitiva/testuale –, significa valorizzare la differenza qualitativa interna dell’ articolazione delle soggettività di classe e di quest’articolazione complessiva stessa rispetto alla classe capitalista, rifiutare l’inclusione politica nel sistema dato.

La conoscenza della città deve tornare così ad essere conoscenza di parte, inchiesta. Oggi la rete universitaria non è in grado di mettere all’ordine del giorno un’inchiesta dell’università spezzata, della metropoli, ma può umilmente riprendere in mano i fili dell’inchiesta militante almeno nell’università tradizionale.

 

Se viviamo in un’università periferica, un’università che è una tra le tante nella città, dobbiamo visitare, in modi ancora da inventare – e che questa due giorni può darci modo di discutere – le università diffuse dove si svolge una guerra non meno importante della nostra tra formazione e autoformazione, valorozzazione e autovalorizzazione, codici della repressione e gesti della liberazione.

Oggi gran parte degli studenti formati dalle facoltà umanistiche vendono forza lavoro nei centri ricreativi e di assistenza delle periferie. Loro compito è contribuire a formare individui educati e disciplinati dove c’è il disagio, la rabbia, il rifiuto. Occorre organizzare seminari dove questi studenti possano mettere a tema il loro ruolo, e le potenzialità che esso ha nell’ottica di un suo tendenziale rovesciamento: non formare né educare, ma conoscere. Questi luoghi costituiscono lo scenario più tipico di quell’intreccio tra governo del territorio, repressione e valorizzazione economica dell’essere umano che le città governate dal centro-sinistra (particolarmente Torino e Roma) sperimentano. Sono territorio pulsante di un cuore metropolitano che disloca infine i concetti stessi di centro e periferia.

 

Il rapporto con i territori e il nodo degli effetti di autoformazione che sui territori si danno, questo ci sembra un tema stimolante per affrontare la questione del rapporto tra autoformazione e movimenti, nell’ottica di una strategia di disarticolazione attiva delle dinamiche di governance. Se quanto avvenuto nelle periferie francesi sfida fino in fondo le nostre capacità di pensare altrimenti, a partire da quell’esempio, una scienza della comunicazione sovversiva, un rovesciamento dello spettacolare anche grazie a una conoscenza di parte del territorio, la lotta della Val di Susa mette in primo piano una dinamica conflittuale dove scienza e territorio sono precisamente il campo di battaglia.

 

La quantità sterminata di conoscenze tecniche che la popolazione della valle è riuscita a procurarsi in piena autonomia sul progetto dell’Alta Velocità e il suo uso di parte; la capacità di produrre alleanze con pezzi di ceto professionale accademico e medico al fine di costruire un discorso scientifico di parte, da contrapporre a quello governativo; il ruolo fondamentale della conoscenza del territorio nella battaglia contro le forze dell’ordine; sono tutti nodi che stimolano una riflessione sulla rapidità nella metamorfosi delle categorie che non solo il capitale, ma anche la soggettività antagonista produce.

Se così tanti studenti hanno abitato la valle nei giorni della libera repubblica di Venaus e in quelli della resistenza strada per strada, incontrandosi poi all’università trasformati da un’esperienza di lotta che è stata il contrario di un’esperienza di comunità, ma precisamente una riappropriazione del comune, questo è stato grazie al fatto che esiste anche un’università della valle, una libera università di Venaus, come del resto una libera università di Vicenza, una libera università di Copenhagen o di Rostock, di Atene o di Rennes, di Salonicco o di Clichy-sous-Bois.

 

Concepire come periferica la nostra autoformazione seminariale all’Università e metterci in viaggio attraverso le tante altre periferie dell’autoformazione e dell’autovalorizzazione intellettuale, questa ci sembra una sfida per la quale dobbiamo prepararci a livello nazionale ed europeo.

Sottrarre sapere al capitale, contrastare la governance del capitale, individuare nelle istituzioni e nelle loro mani sulla metropoli il nostro nemico: questo è il progetto. Nuove produzioni di alterità attraverso il conflitto sociale diffuso, fuori e contro le istituzioni del controllo: questa è l’indicazione strategica che ci arriva dalla stagione europea di lotte 2005-2007.

Collettivo universitario autonomo – Torino, Maggio 2007

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